Quando si parla di guerra commerciale non ci si può distrarre un secondo!
La settimana si era aperta con la convinzione che la guerra commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina fosse instradata verso una tregua o qualcosa di simile, ma ancora una volta è arrivata una svolta, quindi tutte le carte sul tavolo sono state di nuovo rimescolate.

Al G20 i due paesi avevano deciso di riprendere le trattative sui dazi. Dopo la cena tra Donald Trump e Xi Jinping a Buenos Aires, al termine del lavori del vertice tra le 20 principali economie del mondo, i due leader si erano messi d’accordo per non imporsi reciprocamente nuovi dazi a partire dal primo gennaio, promettendosi anche di avviare nuovi negoziati a tutto campo.
Per entrambi la scelta era quella di convergere su posizioni di parziale compromesso: a fronte di quella che è la situazione del suo mercato interno la Cina si era detta pronta ad aumentare le importazioni, con l’acquisto di più materie prime negoziabili dagli Stati Uniti, in modo da mitigare gli squilibri commerciali.

Ma durante la settimana c’è stata appunto una nuova rottura.
Tutto parte da un arresto, quello di Meng Wanzhou, la direttrice finanziaria di Huawei, gigante cinese della tecnologia. Meng, che è figlia del fondatore di Huawei, è stata arrestata in Canada su richiesta degli Stati Uniti, che ne hanno chiesto l’estradizione.
L’arresto in realtà è avvenuto il primo dicembre scorso, cioè proprio mentre Xi e Trump erano a tavola insieme, ma la notizia è stata diffusa dalle autorità canadesi nella serata del 5 dicembre.

Tutta questa storia va inscritta all’interno di un processo più ampio, perché il confronto tra Stati Uniti e Cina nel settore tecnologico, che è un piano pienamente politico, si è fatto molto serrato da quando Trump è presidente. Dobbiamo tornare allo scorso marzo, quando, citando motivi di sicurezza nazionale, il governo degli Stati Uniti bloccò un’offerta da 117 miliardi di dollari presentata da Broadcom, un produttore di microchip di Singapore, interessata ad acquistare la concorrente statunitense Qualcomm. Era un primo segno del protezionismo tecnologico di Trump.
Poi un mese dopo il dipartimento del Commercio vietò a ZTE, cioè il secondo più grande produttore cinese di sistemi di telecomunicazioni, di accedere ai componenti prodotti dagli Stati Uniti. Ecco, in quel caso, il divieto fu motivato proprio sostenendo che ZTE avesse violato le sanzioni imposte contro l’Iran e la Corea del Nord. La Cina rispose bloccando buona parte delle attività commerciali di ZTE negli Stati Uniti, causando un serio danno economico, e alla fine Trump intervenne per sbloccare la situazione, dando nuovo accesso a ZTE in cambio del pagamento di una multa da 1 miliardo di dollari, della sostituzione di alcuni suoi dirigenti e del libero accesso alle sue attività per ispezionarle.

Ma non dobbiamo confonderci: quella di cui vi parliamo non è una “guerra degli smartphone” o una partita tra Huawei e Apple, anche se l’azienda cinese è conosciuta in Europa proprio per i suoi telefoni, che sono stati tra i primi cellulari cinesi ad avere successo commerciale in Europa.
Qui la questione si sposta su un piano molto differente: Huawei è uno dei leader mondiali anche nel settore delle telecomunicazioni, per il quale produce sistemi e apparati per la trasmissione e la gestione dei dati. Molti paesi basano parte delle loro reti di telecomunicazioni, cioè una delle più importanti risorse strategiche per una nazione, sulle soluzioni prodotte da Huawei.

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