Atterrando a Kigali, capitale del Ruanda, colpisce la prima impressione. Sembra di arrivare in un luogo del nord Europa, non fosse per il caldo e la vegetazione. Ordine, pulizia, dinamicità. E poi le gru, le case in costruzione, i palazzi moderni e una vitalità frenetica. Un cantiere costante, vivo e che punta verso l’alto.
Un paese in costruzione
Più di 11 milioni di abitanti per un paese grande circa come la Sicilia, che si ricostruisce pian piano dopo i tragici eventi del genocidio del 1994. Sono evidenti gli investimenti dall’estero, che danno l’idea di uno stato fiorente e che, però, pretendono sicurezza e ordine.
Ciò che si vede è impressionante e colpisce subito, ancora di più in confronto ad altri stati africani, più caotici e scombinati. Nelle strade ognuno ha un attività, le persone attendono l’autobus in una fila ordinata, i mototaxi hanno il casco per loro e per l’unico passeggero che prenderanno lungo ogni tratta.
C’è anche altro, che non si vede, sotto la superficie. Non si vedono mendicanti, non si vedono rifiuti in nessun luogo, non si vedono sacchetti di plastica: sono proibiti. E non si vedono neanche bambini che vendono prodotti ai bordi della strada o persone che fanno l’elemosina. Secondo Human Right Watch queste persone non si vedono perché sono arrestate e nascoste in centri governativi; secondo Reporter Sans Frontier sono lungi dall’essere visibili e garantite anche la libertà di stampa (nella sua classifica Rsf valuta il paese al 159 posto su 180) o l’opposizione politica al governo di Paul Kagame, accusato di usare le leggi che garantiscono la pace dopo il genocidio per inibire le voci contrarie.
Ma oltre allo sguardo e a ciò che gli è nascosto, c’è di più, ci sono altre sensazioni che vanno più a fondo. Come un suono grave, costante e in lontananza, che fa vibrare nelle viscere un inspiegabile senso di dubbio. Come un eco profondo che proviene dalle mille colline del piccolo stato dell’Africa dell’est.