Fabio Rampelli, deputato di FdI e vicepresidente della Camera, ha avanzato una proposta di legge con lo scopo di difendere l’italiano. Prevede, tra le altre cose, l’obbligo di utilizzare strumenti di traduzione o interpreti per ogni manifestazione o conferenza che si svolga sul territorio e il divieto di usare sigle o denominazioni straniere per definire ruoli aziendale, a meno che non esista l’equivalente italiano; aggiunge poi che a scuola e nelle università i corsi in lingua straniera possono essere tenuti soltanto se giustificati dalla presenza di studenti stranieri.
Il testo ha sollevato una prevedibile polemica, imperniata attorno al concetto di “forestierismo”, che rischiano, secondo la proposta di Rampelli, “di portare a un collasso dell’uso della lingua italiana fino alla sua progressiva scomparsa”.
Per capire se si tratti di un timore realistico o di una proposta principalmente ideologica, abbiamo contattato Ilaria Fiorentini, professoressa associata all’Università degli Studi di Pavia, dove insegna sociolinguistica e pragmatica e linguistica del testo.
Il termine forestierismo è un termine usato in ambito di studio e ricerca per indicare termini stranieri entrati a far parte del vocabolario (come “croissant”), anche nel caso vengano adattati al parlato italiano (come “dribblare”). I linguisti, quindi, li studiano, ma non condividono affatto la preoccupazione rispetto al loro ruolo nocivo: quella della morte dell’italiano per mezzo di termini stranieri non è presa in considerazione. Finché si tratta di singoli termini, spiega Fiorentini, e non di modifiche della morfologia e della grammatica italiana, il pericolo non è all’orizzonte.
Un altro elemento discusso della proposta è l’impegno che verrebbe preso in carico da un Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana nel territorio nazionale e all’estero, la cui istituzione è prevista dal testo. Il Comitato dovrà promuovere “l’uso corretto della lingua italiana e
della sua pronunzia nelle scuole, nei mezzi di comunicazione, nel commercio e nella pubblicità”. Ma qual è, a bene vedere, l’italiano corretto? Esiste davvero una lingua corretta?
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