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DUMBO III – Napoli e la bellezza nonostante

Napoli è una città unica e dalle mie sfaccettature, multiforme e in grado di parlarci con mille linguaggi diversi. La sua bellezza sta nella storia raccontata dal suo centro ma anche dalle vedute mozzafiato di Posillipo e di Mergellina, dove cielo e mare si uniscono in un trionfo dell’azzurro più puro.

Ma Napoli non è solo questo.

Se provate a chiedere a chiunque dove stia la bellezza di Napoli, avrete come risposta i monumenti del centro storico, l’eleganza dei suoi palazzi e dei caffè, secoli di storia raccontati dalle testimonianze che ci giungono dall’epoca romana fino a raggiungere i giorni nostri.

Ma Napoli, lo ribadiamo, non è solo questo.

Napoli la troviamo nelle sue periferie, dei luoghi-non-luoghi che dietro il degrado che sta dinanzi agli occhi di tutti e tutte noi nasconde un tesoro di straordinaria bellezza, quasi sovrumana.

In questa puntata di DUMBO vi vogliamo accompagnare nei sobborghi di Napoli, dopo avervi guidato nel Rione Sanità, il cuore di una città diventato nei secoli anch’esso, paradossalmente, periferia. Stiamo parlando di quartieri che parlano anch’essi il linguaggio dell’arte con i loro murales ma anche di esperienze e performance sorprendenti, tra tutti il teatro NEST di San Giovanni.

Stiamo parlando di luoghi in cui urlo, sberleffo, ironia, preghiera e passione si uniscono tra palazzi dalla precarietà costante.

Azzardi architettonici e bar dove davanti a un caffè i clienti sanno raccontarsi, narrando storie di vite difficili ma che sanno anche ascoltare, creando e offrendo la sensazione di sentirsi accolti a casa.

Vogliamo accompagnarvi e mostrarvi piazze dove anche la sera tardi gli abitanti si ritrovano per parlare, per trascorrere insieme una porzione della loro giornata condividendo i guai, le gioie effimere, quei sentimenti e quello spirito che li invitano ad andare avanti.

Visitare le periferie di Napoli con discrezione e rispetto vuol dire viaggiare nella bellezza, tra i volti e le storie di luoghi dove nessuno è abituato a cercarla.

Il 7 gennaio del 1973 Pier Paolo Pasolini nei suoi Scritti corsari parlava di “figli dignitosi e umili, con le loro belle nuche, le loro belle facce limpide. Ragazzi antichi, bellissimi e pieni dell’antica dignità umana”.

Parole e definizioni che ritroviamo negli occhi di queste vite periferiche.

La Bellezza nonostante.
Titolo ipotetico di questa puntata di DUMBO ma sopratutto origine tratta dalla considerazione che alcuni aspetti dell’umanità, e di alcuni suoi valori, possano regalare una soddisfazione morale interiore maggiore quando la ritroviamo in ambienti degradati e difficili. O per meglio dire “esternamente” degradati e difficili, quali sono quelli che caratterizzano le periferie.

Un aspetto che ci colpisce sono i tratti quasi crudeli, tristi e drammatici che la scenografia di queste periferie offre a noi che siamo di passaggio, ma non sempre a chi le vive, che si tratti di un abitante del quartiere o di qualcuno che provi – come chi vi sta raccontando – ad attraversarle immergendosi in esse, penetrando nella loro quotidianità non come un osservatore esterno bensì facendosi in qualche modo “periferia”.

Sono tante le realtà vive e vitali che operano ogni giorno a Scampia, Secondigliano, Ponticelli, Gianturco, e in tutti quei quartieri di periferia, simili per molti versi a zone che definiamo “periferie clandestine” perché più propriamente urbane e centrali, come il Rione Sanità. Ve ne abbiamo parlato nella seconda puntata del viaggio napoletano di DUMBO.

Associazioni di volontariato, comunità parrocchiali, piccoli laboratori teatrali, decine di operatori e operatrici che lavorano con impegno e una passione visibile nei loro occhi, perché il volto delle periferie si presenti più pulito e più limpido e per offrire agli abitanti una possibilità di riscatto.

Ma a noi questo non basta.

Vogliamo cercare l’umanità di questi luoghi anche nei bar e sulle strade, dove gli abitanti di queste periferie sono veri e autentici nelle loro dolente ma viva realtà, un quotidiano che sa svelare germogli di bellezza solo a chi se ne avvicina ben disposto.

Certo, un aspetto esteriore più decoroso dei quartieri periferici, una diversa ripartizione degli spazi, un’urbanizzazione più adeguata, offrirebbero a questi luoghi una maggiore spinta verso una vivibilità diversa, ed è anche in questo aspetto che vogliamo stimolare una riflessione, raccontando le periferie, sempre al plurale perché ognuna trasmette unicità, fuori dai soliti luoghi comuni.

Da qui nasce la nostra speranza che la bellezza nonostante diventi bellezza nuova e basta.


«La prima cosa che ti colpisce è la luce», scriveva un grande reporter, Kapuschinski, appena 
mise piede in Ghana, un paese decolonizzato che raccontò girando tra le fogne a cielo aperto e gli sgangherati palazzi del potere.

Quando mettiamo piede nelle periferie di Napoli, sbucando dalla metropolitana, c’è una prima cosa che ci colpisce, che ci sorprende.

È la prima cosa che ci viene addosso, che ci troviamo intorno, insieme alla luce. È l’assenza.

L’assenza di spiegazioni, di decodifiche, di voci. Assenza di false giustificazioni e di realtà sbattute in faccia: «siamo così, siamo questo e non altro, non c’è niente da motivare, se ci vuoi siamo così e vai avanti».

Non troviamo finte cerimonie, tipo vetrine di negozi e centri commerciali che richiamano agorà del nuovo millennio uguali a quelli diffusi in tutto il mondo.

«Noi stiamo vivendo, se cerchi un volto, prosegui», questo sembrano dirci, le periferie, appena usciti dalla metropolitana, quel cordone ombelicale che ci lega alla centralità di una città come Napoli.

C’è assenza di segnali e di testimonianze umane, a parte i muri e i murales che parlano accanto alle stazioni, nelle piazze e nelle rotonde.

Un’altra cosa c’è, in realtà, ed urla nel silenzio.

La gelosia e la possessività, quella umana e ovattata gelosia della propria storia rionale che spinge chi ti osserva, straniero, al punto di domandarti: «Che ci c’entri, tu, con noi? Sei venuto a controllarci? Chi ti manda?»

Hanno ragione, hanno ragione a porci queste domande. Non sappiamo niente di loro, non c’entriamo nulla con loro. Dopo qualche istante di studio silenzioso, ci osservano, e sanno dirci «Se vuoi capirci, cammina. Arriva ai muri, decifra e rifletti se ne sei capace. Perché non regaliamo i nostri segreti al primo che arriva. Te la devi conquistare, questa luce».

Accettiamo la sfida e andiamo verso muri dipinti all’inverosimile, come sfingi enigmatiche guardiane di un altro mondo. Se non li decifriamo rischiamo di non farcela a venirne fuori. E più che altro continueremo a vivere nell’incomprensione.

Davanti alle visioni dei writers di Chiaiano e Marinella, di San Giovanni a Teduccio o Scampia o Gianturco, la nostra mente si è sempre messa in moto oliando ingranaggi più di quanto abbiamo fatto in passato tra le bellezze dei Musei Capitolini o degli Uffizi. Per molti ragazzi di queste zone “di scarto”, le botteghe d’arte della notte sono la loro salvezza, quelle certezze alle quali appellarsi quando non si riesce più a vivere.

Questo silenzio, allora, quando si scende dai treni, è il chiudersi muto di una bocca cucita su un mistero di salvezza, un qualcosa che ci dobbiamo meritare. «Vai avanti, oppure va vattin’»

Allora percorriamo queste strade senza arrenderci e senza paura, con rispetto e discrezione.

Percorriamo tutte le strade possibili senza retorica e senza pregiudizi, contemplando i colori iniettati sulla pelle e sulla carne di questi muri, volti terribili ma anche esilaranti. Non c’è nessun altro tipo di sguardo possibile, per gli scrittori-writers delle periferie, se non quello mistico.

Cioè il perdersi nell’assolutamente altro.

Ed eccoci, per caso, nella stazione Frullone-San Rocco della linea 1 della metropolitana.

Siamo nel rione tra Chiaiano e Marianella, vicino a via Scaglione. Silenzio e assenza, anche qui. Fin da subito. Assenza di ogni minimo aiuto nell’interpretazione di ciò che ci circonda.

E allora, jamme ja.

Mani in tasca e occhi aperti, come chi ha dinanzi a sé un appuntamento atteso da una vita.

Andiamo verso i colori. Un benvenuto tutt’altro che accogliente ci attende qui, per essere tollerati o rifiutati. Se avessimo paura di osservare queste ferite, non potremmo mai vedere la fatica dei writers, perché questi disegni sono tagli sulla pelle che scatenano grida, tatuaggi sui muri, gli stessi che troviamo accanto, in modo quasi beffardo, alle aiuole e ai fiori in disordine della stazione Frullone, giardini talmente disordinati e illogici da poter essere opera di un genio.

Qui il primo artista sembra essere il tempo, insieme alla noia. Perché qui la noia sembra abbondare, pur creando bellezza.

Dunque, i graffiti.

Siamo di fronte a una sorta di alieno, fronte tonda ed enorme, occhi spropositatamente grandi, magrezza da deportato, occhiaie e zigomi scavati. Questo graffito non rappresenta un extraterrestre ma sembra rappresentare il dolore. Ci ricorda la storia umana di Stefano Cucchi, ma noi non abbiamo diritto, qui, di dare titoli. Non dimentichiamo che il silenzio immenso delle periferie è un duro addestramento per reclute, uno spietato provino per la mente.

Oltre all’assenza di aiuti interpretativi notiamo un altro particolare. L’attesa: è questa, la cosa che ci viene addosso, qui, nelle periferie. La silenziosa attesa del giudizio nei nostri confronti, noi che passiamo, che ci aggiriamo tra questi luoghi pur sapendo che tra poco ce ne andremo.

Giudicati, sì. E se non accettiamo questo giudizio delle periferie, forse è meglio lasciare Napoli.

Perché Napoli non è il suo centro.

L’assenza, dunque, di spiegazioni, di giustificazioni, di chiavi di comprensione.

La gelosia della propria storia, della propria guerra quotidiana, del proprio sangue.

E l’attesa del giudizio che ci piomba addosso.

E chest’è.

A pochi metri dall’alieno, o dall’uomo che rappresenta il dolore, c’è una fata bionda pensosa, con le mani intrecciate. La veste è larga e la copre totalmente.

Forse è la primavera.
Forse è la Donna.
Forse è la Felicità.

 

 

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