Siamo arrivati alla puntata numero 8, il numero fortunato per eccellenza nella cultura cinese, sia per correlazioni astrali collegate al libro dei Ching, sia perché in cinese l’8 si dice “ba” che assomiglia a “fa”, cioè ricchezza, fortuna, benessere. Addirittura, le Olimpiadi di Pechino iniziarono proprio l’8 agosto 2008 alle 8 di sera.
Intanto, gli eventi in Asia Nord-Orientale si susseguono rapidamente: non si erano ancora spenti gli echi della visita di Kim Jong-un a Pechino e due giorni fa è arrivata la notizia che Corea del Nord e del Sud terranno il loro primo vertice da oltre un decennio il 27 aprile. Se tutto filerà liscio da qui ad allora, il presidente sudcoreano Moon Jae-in e Kim si incontreranno quindi nella “Casa della Pace” sul lato meridionale del villaggio di confine di Panmunjom. E quello, si auspica, sarà un altro momento chiave. Intanto, però, c’è molto da dire sull’incontro “non ufficiale” tra Kim Jong-un e il presidente cinese Xi Jinping, dalla denuclearizzazione della penisola coreana ai rapporti di forza regionali.
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«Se Corea del Sud e Stati Uniti rispondono in buona fede ai nostri tentativi, creano un’atmosfera pacifica e stabile e si adoperano con regolarità e simultaneamente a raggiungere la pace, si può ottenere la denuclearizzazione della penisola». È stata questa la frase più significativa pronunciata da Kim Jong Un durante il suo storico viaggio. Storico perché è stato il primo fuori dalla Corea del Nord da quando è salito al potere nel 2011.
Quella frase sulla volontà di denuclearizzare è stata citata e quasi sbandierata dall’agenzia di stampa ufficiale cinese, Xinhua, e ripresa da tutti i media cinesi e occidentali. Kim ha inserito quella frase in una sorta di continuità storica: ha detto che abbracciando l’obiettivo della denuclearizzazione lui seguirà le volontà di suo padre Kim Jong Il e di suo nonno Kim Il Sung. Come a dire: non siete voi che me lo chiedete, sono io che l’ho sempre pensato.
Il punto però è un altro: cosa intende Kim quando pretende segnali di buona fede da parte di Washington e Seul? E qualora tali segnali arrivassero, cosa intende lui per denuclearizzare?
I gesti di buona fede reciproca, come i cinesi e anche i russi auspicano, potrebbero sintetizzarsi tanto per cominciare nel “doppio congelamento”: basta test missilistici e nucleari nordcoreani da una parte e basta esercitazioni militari congiunte tra Stati Uniti e Corea del Sud dall’altra. Questa è una soluzione che nei mesi scorsi, durante l’escalation di provocazioni e minacce reciproche, era ritenuta impraticabile da quasi tutti. Ma nel nuovo clima di riconciliazione segnato dal viaggio di Kim a Pechino e dal dialogo intercoreano, perché no, potrebbe tornare in auge.
Più problematica è invece la denuclearizzazione, perché Kim non è certo intenzionato a rinunciare al proprio programma missilistico-nucleare senza garanzie. C’è consenso nel ritenere, e i precedenti confermano, che per lui è l’intera penisola coreana a dover essere denuclearizzata e non si può certo dargli torto, da questo punto di vista. Quindi, dovrebbero essere rimosse anche le armi atomiche degli Stati Uniti.
E qui la faccenda si complica, perché è vero che Washington proclama di non avere più armi atomiche nelle proprie basi in Corea del Sud dal 1991. Ma prendendo un esempio molto vicino, noi italiani siamo i primi che non hanno la più pallida idea di cosa ci sia dentro quei luoghi extraterritoriali, di fatto territorio statunitense in terra italiana, che sono le basi di Ghedi e Aviano. Gli Stati Uniti hanno imposto proprio il segreto su quello che c’è lì dentro, alla faccia della sovranità territoriale.
E poi, se anche le atomiche non ci fossero nelle basi statunitensi, il Pentagono ha sempre pronta una forza nucleare di pronto intervento – mobile – con i propri bombardieri strategici parcheggiati nell’isola di Guam, i sommergibili e le portaerei che scorrazzano nelle acque dell’Asia orientale. È il cosiddetto “ombrello nucleare” statunitense che dovrebbe proteggere Giappone e Corea del Sud che non possiedono armi nucleari in proprio. Data questa presenza incombente, per dare a Kim le garanzie che chiede, bisognerebbe come minimo chiudere le basi statunitensi in Corea del Sud.
Finora, ogni ipotesi del genere è stata sempre esclusa da Washington e su quel punto specifico ogni discorso sulla denuclearizzazione si è incagliato. Oggi, con un presidente anomalo come Trump alla Casa Bianca, quali sono le possibilità che gli Stati Uniti considerino davvero l’ipotesi di chiudere le proprie basi sudcoreane e richiamare i 30mila soldati che vi sono dislocati? Beh, finora le indicazioni vanno in senso diametralmente opposto. Anzi: i falchi di Washington e di Seul vorrebbero che fossero esplicitamente reinstallate le testate atomiche nelle basi, ed è palese che la presenza militare statunitense in Corea del Sud serve anche e soprattutto alla strategia del contenimento nei confronti della Cina.
Quindi abbiamo una Corea del Nord che si sente tranquilla solo se gli statunitensi se ne vanno o quanto meno non la minacciano immediatamente; Cina e Russia che strizzano l’occhio all’ipotesi che un giorno o l’altro gli Stati Uniti se ne vadano davvero; Giappone e i falchi sudcoreani che invece vorrebbero dotarsi del nucleare, con o senza Stati Uniti; e il presidente sudcoreano Moon, che è un socialdemocratico, la cui famiglia è di origine nordcoreana e spinge per il riavvicinamento con Pyongyang, che è preso in mezzo.
Il viaggio di Kim Jong Un a Pechino va visto come un piccolo spiraglio che si apre in direzione della pace, ma il difficile, quindi, viene proprio adesso.
Intanto c’è stata soprattutto la ricostruzione del legame tra Pyongyang e l’alleato storico, il grande protettore della porta accanto. Ne escono rafforzate diplomaticamente sia la Cina, che finora appariva un po’ tagliata fuori dal gioco di reciproci abboccamenti tra la due Coree e gli Stati Uniti, sia la stessa Corea del Nord, perché ora Kim può pensare al possibile incontro con Trump di maggio sentendosi le spalle coperte.