In questa puntata ripartiamo da dove ci siamo fermati nella precedente, ovvero dalla Corea del Sud. A sud della penisola coreana esiste un’isola, Jeju, che gode di uno status giuridico particolare: non c’è bisogno di un visto. Proprio qui, nel mese di luglio erano arrivati circa 550 cittadini yemeniti, in fuga dalla guerra scoppiata nel marzo del 2015 con l’offensiva dell’Arabia Saudita contro i ribelli Houthi, appoggiati dall’Iran.
Ma per rimanere il Corea del Sud il visto serve, eccome. Ed ecco che i profughi yemeniti hanno presentato la propria richiesta di protezione internazionale. Apriti cielo: nelle strade sudcoreane sono partite proteste, a volte violente e spesso con toni fortemente xenofobi, per spingere il governo socialdemocratico di Moon Jae-in a negare il visto a quelli che sono stati accusati di essere “falsi rifugiati”, oppure violentatori in quanto musulmani.
Per certi versi questa violenza è sorprendente, perché la Corea del Sud è un Paese che finora, dal 1994, ha accettato solamente il 2,5% di tutti i richiedenti asilo, ovviamente al netto di quelli che scappano dalla Corea del Nord, e i richiedenti asilo oggi sono, come percentuale sull’intera popolazione coreana, solo lo 0,02%, mentre tutti gli stranieri presenti nel Paese arrivano al 4%. Numeri bassissimi. E quindi perché questa paura? Perché questa ondata di razzismo, di xenofobia, di terrore dello straniero?
Intanto, il governo cinese ammette l’esistenza dei centri di detenzione nello Xinjiang, ma più che un’ammissione si tratta di una “legalizzazione” di luoghi che Pechino chiama “centri di riqualificazione professionale”. Se ne parlava da mesi, i funzionari avevano sempre negato la loro esistenza, poi hanno cominciato ad ammettere che esistono questi luoghi e la versione di Pechino è che i colpevoli di reati minori vengono inviati qui affinché possano avere un’altra opportunità, possano redimersi e avere un’altra possibilità, sia professionale sia di rientrare nella società.
Da tutte le testimonianze che emergono si sottolinea soprattutto che questa formazione professionale che si dà a questi detenuti si basa soprattutto sull’apprendimento della lingua nazionale, cioè il Putung-huay, il cinese mandarino, come lo chiamiamo, perché molti uiguri fanno fatica a parlarlo, le conoscenze giuridiche, quindi il nuovo stato di diritto cinese, quindi si impara a non violare le leggi, e poi infine anche le abilità professionali. Un modo semplice per ottenere forza lavoro a basso costo?