In questi giorni le decisioni su questa che possiamo definire una guerra commerciale si accavallano e ci costringono spesso a inseguire: l’ultimo capitolo è arrivato giovedì 5 aprile, quando il presidente Trump ha chiesto ai suoi funzionari che si occupano di commercio di identificare nuove categorie di beni a cui applicare altri dazi sulle importazioni dalla Cina per un totale di 100 miliardi di dollari all’anno. Insomma, una nuova catena di reazioni e ritorsioni che sta rendendo sempre più grande la questione. Apparentemente la questione non ci tocca molto, ma in ballo non c’è solo la bilancia commerciale di Cina e Stati Uniti.

Un diplomatico lussemburghese che si è sempre occupato di sicurezza alimentare e ambiente ci spiega che se la Cina imponesse una tariffa sulla soia statunitense, per garantirsi l’approvvigionamento di quello che da queste parti è un bene primario si rivolgerebbe a Brasile e Argentina. Dato l’enorme fabbisogno, si può ipotizzare che i due Paesi sudamericani comincerebbero a competere disboscando tutto il disboscabile per creare coltivazioni di soia sufficienti a soddisfare la domanda cinese.
Questo semplice ragionamento ci dà la misura di come una ipotetica guerra commerciale tra Pechino e Washington non sia solo una questione che riguarda due superpotenze e che potrebbe addirittura diventare guerra vera nel futuro. In un mondo globalizzato e interconnesso, è un problema che ci coinvolge tutti subito.

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Dopo avere annunciato che avrebbe ribattuto colpo su colpo ai primi dazi annunciati da Trump, la Cina era passata alle vie di fatto, varando tra il 3 e il 4 aprile tariffe su 106 prodotti statunitensi. In totale, si calcola che le contromisure punitive abbiano un valore di 50 miliardi di dollari l’anno. Insomma, occhio per occhio, dente per dente: Trump aveva tassato le merci cinesi per una cifra simile.

Spicca quel dazio del 25 per cento proprio sui semi di soia, un prodotto al centro della catena alimentare: non solo nutre l’uomo, ma anche il bestiame. Se la Cina pensa di poter fare a meno delle importazioni statunitensi, ritiene che il gioco valga la candela, perché può procurarsela altrove.

Insomma, quello che muove Pechino è il fattore politico: otto dei nove Stati degli Stati Uniti che producono soia sono una roccaforte elettorale dei repubblicani e del presidente Trump e commerciano annualmente con la Cina per un valore di 14 miliardi l’anno. Le tariffe cinesi vogliono chiaramente colpire l’agricoltura statunitense: oltre alla soia, ci sono anche tabacco, grano, mais. Sono dazi che “puniscono” Trump e la sua base. E qui si innesta il “vantaggio competitivo” che la leadership cinese ha nei confronti dell’amministrazione Usa: Trump dipende dal voto; Xi Jinping no.
Non è che il Partito comunista cinese non stia appeso al consenso, anzi, è sempre più ossessionato dal modo in cui ottenerlo. Ecco quindi l’obiettivo dello xiaokang, un soddisfacente livello di benessere diffuso.
Concorrono, in questa visione del consenso in cambio di beni molto materiali, sia la particolare concezione del marxismo recepita e poi rielaborata dal Pcc, di fatto uno “sviluppismo”; sia la consapevolezza che nella storia cinese le dinastie sono cadute quasi sempre in concomitanza e a causa di disastri naturali, che hanno privato la popolazione dei mezzi di sostentamento: carestie, inondazioni.

Tuttavia, in Cina, il consenso può essere ottenuto su tempi più lunghi rispetto alle scadenze elettorali delle liberaldemocrazie. I cinesi hanno già colto il messaggio che arriva dall’alto: Xi Jinping non se ne va neppure dopo il 2022, tiriamo avanti anche se aumenterà un po’ il prezzo della soia o della carne di maiale.

In coda alla trasmissione si parla anche della condanna a 24 anni di carcere per l’ex presidente sudcoreana Park Geun-hye nell’ambito del grande scandalo di corruzione che l’ha costretta a lasciare il potere nel marzo del 2017. Una storia di abuso di potere e di interessi economici mossa da Choi Soon-sil, amica di famiglia e “santona” personale di Park.