Intervista a Silvia Maraone

Negli ultimi giorni si è tornati a parlare della rotta bosniaca, ramo secondario della cosiddetta rotta balcanica per le migrazioni. Questo percorso vede il transito di migliaia di persone ogni anno, ma il 2020 ha avuto un impatto particolare.

La pandemia ha avuto le sue ripercussioni anche sulle persone migranti, e in particolare sulla loro possibilità di attraversare i confini statali. In un contesto di movimento già di per sé rarefatto queste ulteriori limitazioni hanno generato non pochi problemi.

A ciò si è aggiunta la difficile situazione sull’altipiano di Bihać , in Bosnia. L’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) ha preso il controllo del campo di accoglienza di Lipa, che è arrivato a ospitare alla fine dell’estate più di 1500 persone. Il governo bosniaco non ha però garantito gli allacci alle reti idriche ed elettriche, e per questo motivo il 23 dicembre l’OIM ha deciso di chiudere il campo. Molte delle persone che vi erano accolte ora dormono nei boschi, sotto la neve.

Si tratta di scenari in realtà prevedibili da mesi. Da circa tre anni la situazione viene gestita dal governo bosniaco come emergenziale, senza prevedere soluzioni a lungo termine.

Non mancano le proposte per andare incontro alle esigenze delle persone migranti. Nei mesi scorsi è stata presentata RiVolti ai Balcani, una rete informale che affronta il problema della cancellazione dei diritti lungo la rotta balcanica.

Ne parla Silvia Maraone, Coordinatrice dei progetti lungo la rotta balcanica di IPSIA, l’Istituto Pace Sviluppo Innovazione Acli.

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