L’8 aprile la Corte d’assise d’appello di Lecce ha ribaltato la sentenza di primo grado del 2017 che condannava i cosiddetti caporali di Nardò per associazione a delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù dei braccianti. La decisione è fondata su una ragione tecnica, dal momento che nel periodo per cui vengono contestati i fatti (tra il 2008 e il 2011) il reato di caporalato non fosse ancora previsto dalla legge.
Quest’ultima sentenza ha suscitato un forte sentimento di rabbia da parte dei braccianti e della parte civile, che si chiedono come i caporali possano essere assolti da ogni forma di accusa pur sapendo che da almeno 30 anni esercitavano un sistema criminale.
La rabbia non è però il solo sentimento che emerge. C’è anche un forte timore che le persone più vulnerabili non avranno più la forza di denunciare e si rassegneranno al caporalato, un sistema che vede vincenti sempre i più forti.
Ciò che forse manca in questo momento è la volontà di mettere in campo veri sistemi di prevenzione, così come sarebbe previsto dalla legislazione in materia.
Ne parla Yvan Sagnet, presidente della Rete NoCap.