Nel Mediterraneo in questo momento c’è un grande vuoto, quello lasciato dalle navi delle ong e da diversi enti statali nel soccorso in mare. Una delle prime esperienze civiche di soccorso è stata quella della nave Iuventa della ong tedesca Jugend Rettet, un progetto nato nel 2016: l’imbarcazione è stata sequestrata dalla procura di Trapani nell’agosto del 2017, ma i numeri dei salvataggi in un solo anno di attività (circa 14.000 persone) raccontano di un lavoro inserito in un importante flusso attraverso il Mediterraneo.
Sono due i principali aspetti che emergono dalla vita a bordo: la grande potenzialità di fare del bene operando salvataggi e dall’altra parte una distruzione di questo potenziale da parte di attori esterni, con una criminalizzazione della solidarietà che passa attraverso la comunicazione mediatica. Dal punto di vista normativo la chiusura dei porti non è mai stata effettiva, ciò che si vede è piuttosto l’applicazione di un hashtag, quel #portichiusi che tante volte si è visto affollare post su diversi social network ma che non ha mai visto una sua formalizzazione sul piano legislativo.
I ripetuti blocchi delle navi per impedire il loro ingresso nei porti non fa che creare disagi, sia alle persone salvate in mare che all’equipaggio formato da volontari. A ciò si aggiunge un ulteriore grande disagio, quello portato dalla mancanza di un coordinamento da parte delle autorità libiche, ora teoriche responsabili dell’organizzazione delle operazioni di salvataggio.
Ne parla Tomoko Mottola, macchinista sulla nave Iuventa.