Intervista a Silvia Maraone
In Italia parlare di migrazioni significa molto spesso concentrarsi sugli arrivi dalle coste africane, o al più raccontare delle isole greche dell’Egeo. Eppure, c’è un’altra importante e molto frequentata via di accesso all’Europa, ed è quella che si snoda tra i Balcani: dalla Grecia alla Macedonia, poi Serbia, Bosnia ed Erzegovina fino ad arrivare in Croazia e infine in Italia.
Uno dei più grandi campi per i migranti in Bosnia è quello di Bihać, nel cantone di Una-Sana, che accoglie circa 1.500 persone. La prospettiva è di uno smantellamento del campo, ma resta l’interrogativo su quale sarà il destino delle persone ospitate.
Intanto, le autorità cantonali di Una-Sana hanno imposto regole sempre più stringenti per le persone migranti, anche in violazione del diritto internazionale: non potranno più utilizzare mezzi pubblici o taxi, non potranno più registrarsi per l’accesso ai campi. Strutture abbandonate e fatiscenti e boschi stanno diventando i ripari più comuni per queste persone, ora anche attaccate dalla polizia e dalla popolazione bosniaca.
L’intera situazione può riflettere innanzitutto alcune fragilità interne della Bosnia stessa. Ulteriori chiusure e inasprimenti delle norme è difficile che porteranno a una riduzione dei flussi di persone in transito: la rotta balcanica manterrà ancora la sua importanza.
Ne parla Silvia Maraone, coordinatrice dei progetti lungo la rotta balcanica di IPSIA, l’Istituto Pace Sviluppo Innovazione ACLI.